Si dice che ogni viaggio lo vivi tre volte: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi.
Io credo che ogni viaggio si viva sempre: diventa parte di chi siamo, rimane con noi costantemente nel nostro modo di vedere il mondo, nel modo di approcciarci alle cose e alle persone, nel modo di pensare ai prossimi viaggi. Nelle nostre scelte, nei nostri valori, ci sono i nostri viaggi. I viaggi che sono per sempre (altroché diamanti).
In questo post voglio raccontarvi cosa hanno rappresentato per me alcuni dei miei viaggi, cosa mi hanno lasciato, come mi hanno cambiata.
Vi racconto della Norvegia che a 11 anni mi ha insegnato a essere autonoma (e caparbia), del Brasile che mi ha insegnato il dolore delle ingiustizie, e della Malesia mi ha insegnato che spesso la propria vita si inquadra meglio facendo un passo indietro.
La Norvegia a 11 anni mi ha insegnato a essere autonoma (e caparbia)
Settembre 1997, 10 anni appena compiuti. Nicola, il mio migliore amico, arriva a scuola gasato come una molla con una proposta da farmi: “Nene, andiamo in Norvegia quest’estate? Al CISV manca una bambina per chiudere il gruppo che parte per il Village, siamo già in tre, devi essere tu la quarta, saremo due maschi e due femmine. E ci saranno altri 11 gruppi da tutto il mondo!”
“Certo! Bellissimo! Lasciami convincere i miei e domani ti dico!”
Sicurooo. Le ultime parole famose.
Ovviamente, come qualunque genitore di una bambina di 10 anni che chiede di andare un mese in Norvegia da sola, mi dissero di no.
Ovviamente, come qualunque bambina di 10 anni testarda come un mulo, non mollai.
Verso novembre mia mamma era stata convinta dalla mia dialettica incessante (e snervante) e dal fatto che stava iniziando a vederla più come un’opportunità che come una minaccia (cosa che allora a me sembrava ovvia, ma se ci penso ora, a mollare la Clari su un aereo, senza telefoni o computer, per un mese intero, in un posto sconosciuto, mi manca il fiato).
Mio babbo, solito cuore di panna, non poteva assolutamente immaginare la sua bibina dispersa tra i fiordi norvegesi.
Dicembre 1997.
Babbo: “Irenino ti è piaciuto il Natale, sei contenta dei regali?”
Io: “Sì sì, mmm, tutto bene dai.”
Babbo: “Sei sicura? C’è qualcosa che ti turba.”
Io: “No, dai, niente di particolare.”
Babbo: “Dimmi Irene, cosa avresti voluto di diverso?”
Io: “Nessun regalo e un biglietto per la Norvegia.”
Sdeng! Boom! Colpito e affondato, porta in faccia, padellata nei denti.
Io, piccolo mostro manipolatore. Lui, padre spiazzato e attanagliato dai sensi di colpa.
Alla fine capitolò anche lui e quel biglietto per la Norvegia me lo regalarono veramente.
Nell’estate del 1998 partii per Hustad, nel mezzo della Norvegia.
Fu una delle esperienze più importanti, felici, formative, totalizzanti della mia vita.
Imparai che potevo fare esperienze anche senza i miei genitori,
che i bambini di tutti i colori e di tutte le religioni giocano nello stesso modo,
che se davvero ci credi e perseveri le cose possono accadere davvero,
che avere amici in ogni angolo del mondo significa che il mondo diventa casa,
che viaggiare allarga gli orizzonti e cancella i confini.
Che vivere lontano dai miei genitori, per quanto meravigliosa possa essere un’esperienza, è davvero davvero difficile.
(E questa, cara Irenina di 11 anni, sarà la verità più dolorosa della tua vita, vent’anni dopo.)
Capii durante quel mese che il viaggiare sarebbe stato un elemento fondamentale della mia vita e che tutto quell’intreccio di culture avrebbe fatto parte di me per sempre.
[Quelle che vedete qui sotto sono le pagine stampate da mia mamma del sito web che nel 1998 (!) documentava le giornate del campo per aggiornare i nostri genitori in tutto il mondo. Una regola ferrea del CISV è che i bambini non possono telefonare ai genitori durante i campi, per evitare l’inevitabile nostalgia. Quindi ci scrivevamo lettere, cartoline e fax, ma niente telefonate. I miei erano sempre aggiornati grazie al sito e tutti i genitori della delegazione italiana si trovavano a casa nostra per vederlo, visto che eravamo gli unici dotati di internet e computer. Le foto si caricavano lentamente, una riga alla volta e nella maggior parte nei casi non ritraevano nemmeno noi, ma si poteva scoprire solo alla fine!]
Il Brasile mi ha insegnato il dolore delle ingiustizie
Parto per il Brasile nell’estate del 2002.
Anche questa volta per un mese, sempre con il CISV, per uno Step Up (che allora si chiamava Summer) con altre 8 delegazioni da tutto il mondo, ognuna da due ragazzi e due ragazze di 15 anni come noi, direzione Salvador de Bahia.
Ricordo l’arrivo in macchina a Salvador: stiamo percorrendo su una Jeep una grande strada che entra in città.
Alla nostra destra c’è una spiaggia bianca e lunghissima, ville enormi con piscine a sfioro sull’oceano e giardini lussureggianti.
Alla nostra sinistra si estendono favelas a perdita d’occhio, un labirinto di capanne di mattoni sconnessi e lamiera accatastate l’una sull’altra.
Nello stesso spazio occupato da una villa alla nostra destra, ci sono a sinistra centinaia di baracche.
Rimango intontita ad osservare questa ingiustizia lampante che mi colpisce come un pugno allo stomaco. Mi chiedo come facciano a dormire con la coscienza in pace gli abitanti delle ville sfacciatamente affacciate sull’oceano e sulle favelas.
La macchina mette la freccia per svoltare a sinistra. Scambio uno sguardo interrogativo con Nicola (insieme a me anche in Brasile!), stiamo entrando nelle favelas.
“Lo Step Up si tiene sulle colline di Salvador, dobbiamo salire lungo una strada un po’ difficile” ci dice l’autista bloccando la sicura delle portiere e inserendo il 4×4.
La Jeep inizia a salire tra le baracche lungo una stradina sterrata stretta e ripida. Andiamo pianissimo, schiviamo le lamiere che ci circondano. Attorno all’auto quasi ferma iniziano ad accalcarsi bimbi di tutte le età, incuriositi dalla nostra presenza.
“Ignorateli, non preoccupatevi” continua l’autista mentre continua la salita, lento e indifferente.
Ma come ignorateli, penso io, sono bambini, mica zanzare. Come fai a ignorare venti paia di occhi che ti osservano con stupore e curiosità?
Penso alla differenza che può fare nascere cento metri più a destra o più a sinistra. Penso alla vita a cui torneranno quei bimbi mentre io disferò la valigia nella mia stanza. Penso che vorrei aiutarli tutti, che spero che siano felici, amati, che quello non costa nulla.
Penso a un mondo utopico in cui tutti possano avere abbastanza per vivere dignitosamente.
Ci sto male per giorni. Poi, lentamente, me ne dimentico.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Come sempre.
Il nostro mese scorre beato all’interno della nostra bolla di ingenua felicità.
Il Brasile vince i mondiali, festeggiamo per giorni cantando e ballando Festa di Ivete Sangalo (che mi dà ancora oggi i brividi di gioia), ridiamo ad alta voce tra le case colorate del Pelourinho che tutte in fila sembrano una scatola di pastelli. Facciamo colazione col dulce de leche, viviamo in un idillio di interculturalità, adolescenza, voglia di vivere, storie di vita condivise suonando la chitarra.
Viviamo intensamente e siamo felici, euforici, inconsapevoli.
Poi il mese finisce ed è ora di salutarci, tra le lacrime di genuina disperazione. Pre-social network, pre-smartphone, nel 2002 salutare un amico canadese somigliava davvero a un addio.
Abbiamo l’aereo di rientro dopo qualche giorno, quindi nel frattempo veniamo ospitati da una famiglia del chapter CISV locale.
Saliamo nuovamente sulla Jeep e ripercorriamo a ritroso la stradina sterrata dell’andata. Incontriamo tanti altri bimbi, tanti altri occhi.
Mi sento in colpa per tutta la felicità vissuta nel mese passato, a pochi chilometri da lì.
Mi sento in colpa perché sto piangendo tutte le mie lacrime per un motivo sciocco come un addio.
Mi sento privilegiata, viziata, inopportuna, superficiale, fuori posto.
La Jeep supera anche l’ultima casa di lamiera e si immette nuovamente sulla ampia strada costiera.
Dopo pochi minuti raggiungiamo la nostra famiglia ospitante e io mi sento morire: stiamo entrando in una lussuosissima gated community con le guardie di sicurezza all’ingresso.
Le ville sono imbarazzanti da quanto sono belle. La nostra non è da meno. È su tre piani, piscina, sauna, giardino immenso, sun room. Ci sono l’autista, il giardiniere, il cuoco, le addette alle pulizie e la bambinaia. Nella veranda ci aspetta un buffet di frutta e dolci che avrebbe potuto sfamare decine di quei bambini appena incontrati.
Io non mangio, ho lo stomaco chiuso.
Torno in Italia portando con me il peso di questa ingiustizia palese e sfacciata. Il senso di colpa per il mio privilegio. Il dolore per questa iniquità. Non li dimenticherò mai.
Ancora oggi mi accompagnano in tante delle scelte che faccio.
La Malesia mi ha insegnato che spesso la propria vita si inquadra meglio facendo un passo indietro
Al rientro dalla Malesia, nel 2012, scrivevo questo post in cui mettevo tutto il mio cuore: Tornare a casa dopo un viaggio
Scrivevo: In viaggio hai la possibilità di vedere la tua vita con occhi nuovi, da una prospettiva diversa. La guardi da fuori e hai la possibilità di analizzarla meglio che mai: se il tuo lavoro ti piace, se le persone ti sono mancate. Se stai vivendo nel modo che vorresti, in sintonia con i tuoi desideri. Si riordinano le priorità, si ha tempo per pensare, per sentire, per ascoltarsi, per prendere decisioni. Si vede tutto così da lontano e da fuori che si trova più facilmente la forza (il coraggio?) per giudicarlo e analizzarlo.
Per vedere meglio le cose è sempre utile fare qualche passo indietro (o qualche ora d’aereo).
Quel viaggio mi è servito tantissimo, guardando indietro penso che sia stato uno dei momenti di trasformazione della mia vita (che, appunto, spesso hanno coinciso con dei viaggi).
È partita un’Irene, ne è tornata un’altra.
Ha innescato scelte, svolte, cambiamenti. Ha innescato tanta felicità e tanta consapevolezza.
È stato il mio primo viaggio in Asia, all’avventura, circondata da amici veri e da un futuro (oggi passato) grande amore.
Ero felice, piena, al posto giusto.
Cito di nuovo me stessa, come i matti:
Io in Malesia ho capito che ci sono tanti pezzettini di me che ancora non conosco, e che alla fine chi mi stupisce di più nel mondo sono sempre io. Il viaggio ti cambia, e tornare è un po’ come cercare di finire un puzzle con un pezzettino leggermente più grande del buco. Va limato, vanno limati quelli attorno. E se poi proprio non ci entra più, da quel pezzettino un po’ più grande si comincia un nuovo puzzle.
Grazie Irene x aver condiviso tutte qs emozioni! Io nn sono (ancora) riuscita a convincere i miei figli ad interessarsi al CISV, ma ho seminato il verbo su un terreno fertile ed i 2 figli di una cara amica hanno vissuto lo scorso anno la loro prima, fantastica, esperienza CISV 😉
Ciao Roberta! Spero tanto che i tuoi figli possano interessarsene, perché è davvero un’esperienza che cambia la vita!
“Spesso la propria vita si inquadra meglio facendo un passo indietro”.
Ma quanto sono vere queste parole?
Che bello questo post, pieno di sentimenti e riflessioni che fanno pensare. Brava come sempre!
Non ho intenzione di avere figli(per adesso), ma se dovesse succedere in futuro, il CISV me lo segno da qualche parte, deve essere un bellissima esperienza!
Un abbraccio
Grazie Irene! ❤ Sono contenta che ti sia piaciuto. Il CISV ovviamente lo consiglio con tutto il cuore!
Non vedo l’ora di leggere la parte 2, mi lasci sempre senza fiato e con le lacrime agli occhi!!!
La pubblico presto, promesso!!
Ma Irene come scrivi bene?! Mi hai teletrasportato in Norvegia poi in Brasile poi in Malesia! Ci vediamo alla prossima puntata!
Grazie Silvia, arriva presto! ❤
Anch’io ho fatto un campo CISV vent’anni fa!! In India! Esperienza indimenticabile, unica al mondo, sicuramente anche i miei figli la faranno se vorranno
Allora mi capisci ❤ Non è una realtà abbastanza conosciuta, spero di aver incuriosito qualche lettore 😉
Lo so che già in tanti ti hanno scritto che devi scrivere un libro ma te lo ripeto anch’io. Scrivi in una maniera che tieni incollati i lettori e riesci a passare tutte le emozioni ch hai vissuto nei tuoi viaggi e nelle tue esperienze, spero davvero che scriverai un libro!
Ciao Filomena, grazie del tuo commento, davvero. Per ora mi limito a scrivere qui, che è già un bell’impegno. Più avanti chissà, grazie comunque per la fiducia! ❤
grazie per questi bellissimi post, che lasciano sempre spunti di riflessione. attendo presto gli altri, in un momento in cui programmare nuovi viaggi è praticamente impossibile, immergersi in quelli altrui e vedere come sono rimasti nel vissuto fa stare bene.