Ho iniziato questo post come un flusso di pensieri e impressioni (come al solito) e solo alla fine mi sono accorta di un filo comune.
Oggi vi parlo degli uffici dove lavora Carley (da non crederci), dell’Università che ha dato vita alla Silicon Valley e dell’ospedale dove è stato ricoverato un mio collega (che sembra quello di Grey’s Anatomy).
Tutti argomenti che mi intrigano tantissimo e che di solito quando sono in viaggio non vedo.
La vera vita di un paese, quella di tutti i giorni: il lavoro, lo studio, la salute.
(Nel frattempo l’autunno sta arrivando anche qui, fa sempre tanto caldo, ma gli alberi hanno deciso che è ora di cambiare colore.)
Fate leggere questo capitolo al vostro capo
L’altro giorno una mia amica – Carley, ne ho già parlato qui qualche volta – ha invitato alcuni di noi a cena.
Al suo ufficio.
All’inizio credevo di non aver capito bene: “Cioè, mangiamo nel tuo ufficio? Sulla scrivania? WTF?!“
“Ma no, sciocchina, è che la società per cui lavoro ha questo benefit per i suoi dipendenti: cibo sempre gratis e puoi invitare a pranzo o cena chi vuoi!”
AH, OK.
Così alle sei di un lunedì (alle sei perché qui mangiano con le galline) mi sono presentata alla sede di Gusto insieme ad altri 4 nostri amici.
Questa società – per farla super semplice, quasi troppo – ti permette di gestire online i benefit e i pagamenti dei tuoi dipendenti. Tra gli investitori hanno Google, KPCB, YCombinator e poi Jared Leto, Ashton Kutcher e altri imprenditori come i fondatori di PayPal, Dropbox, Instagram, Eventbrite, Twitter, Yelp, WordPress.
Insomma, via, un bel posto in cui lavorare.
La sede è a San Francisco, nella zona di SOMA, a pochi isolati dal Ballpark dove giocano i Giants.
Siamo saliti fino al piano degli uffici e ci ha accolto una ragazza super sorridente con due occhi giganti.
“Toglietevi pure le scarpe, se volete abbiamo delle ciabatte morbidose, dei calzettoni antiscivolo brandizzati, oppure potete camminare con i vostri calzini!”
Colpo numero 1: tutti qui lavorano scalzi o in ciabatte.
Ci togliamo le scarpe, io un po’ in imbarazzo per i miei calzettini a righe con disegnati dei baffi, e passiamo allo step “Badge”.
“Bene ragazzi, qui potete farvi il vostro badge personalizzato con la vostra foto, SMILE!”
Colpo numero 2: girare per gli uffici di Gusto con la mia foto tagliata dal naso in giù perché la macchina fotografica era troppo in alto e io non ci arrivavo neanche in punta di piedi.
Carley ci viene a prendere all’ingresso con le sue ciabattine super pelose e ci fa fare un giro degli uffici.
Noto che alcune scrivanie hanno sopra di loro dei palloncini colorati.
“Quelli sono per i nuovi arrivati: stiamo assumendo a una velocità tale che ogni giorno si vedono facce nuove, almeno con i palloncini abbiamo la scusa per andarci a presentare.”
Colpo numero 3: i palloncini colorati per ricordarti di andare a conoscere i nuovi arrivati.
Non faccio in tempo a dire che mi sembra una genialata che mi ritrovo un carlino attaccato a una gamba.
Un carlino, il cane.
Minuscolo, tozzo e cicciotto, con un sacco di pelle in più del necessario.
“E lui da dove sbuca?!”
Colpo numero 4: da Gusto puoi portarti il cane in ufficio. A meno che non sia grande come un orso. In quel caso meglio di no.
Andiamo a cena, la sala è bellissima, con questi grandi tavoloni di legno per facilitare la socializzazione. La cena è preparata da un’altra società che si occupa di catering bio-salutare-sfizioso.
Tutto è in quantità industriali e di ottima qualità (per essere a San Francisco, la mia nonna con un piatto di cappelletti li batte tutti senza neanche impegnarsi), c’è birra a fiumi, un sacco di dolcetti e tante persone socievoli (più di me di sicuro, in ambienti così social io sono sempre mega in imbarazzo che non so da che parte farmi).
Colpo numero 5: il cibo è sempre gratuito per tutti i dipendenti, colazione-pranzo-merenda-cena, e anche per tutti i loro amici.
Ma qui viene il bello.
Il colpo finale che mi ha steso.
Mentre chiacchieriamo a cena noto che su una parete c’è una giga cartina del mondo.
Sparse per la cartina ci sono delle foto, cartoline, polaroid. Ognuna è puntata con uno spillo a un punto preciso del mondo.
“Cos’è quella?” chiedo ancora inconsapevole a Carley.
Colpo numero 6, eccolo che arriva.
“Quella è la cartina del Golden Ticket: a ogni dipendente, per festeggiare il suo primo anniversario in Gusto, viene regalato un biglietto aereo per dove vuole lui.”
SBAM! (rumore di me che svengo per terra perché non ci posso credere)
“Ah e poi qui non abbiamo un numero preciso di ferie, abbiamo la cosiddetta “Open vacation policy”: possiamo prendere tutti i giorni di ferie che vogliamo, chiaramente nel rispetto del lavoro che dobbiamo portare a termine.”
Colpo numero 7, STESA.
Qualche curiosità da Stanford
Sono tornata a Stanford, ed è sempre un’emozione forte.
È uno dei luoghi al mondo che più mi affascinano: è da qui che è nata la Silicon Valley, dalla lungimiranza dei suoi professori, dal coraggio dei suoi studenti e da un altissimo livello di competenze.
Ogni volta che torno qui scopro qualcosa di nuovo di questo posto che mi intriga ancora di più.
Tre sono i nuovi pezzettini che ho aggiunto questa volta al mio puzzle mentale di Stanford.
Ve li racconto.
Pezzettino 1: la capsula del tempo
Ogni anno, dall’inizio degli anni ’90, i laureati di Stanford hanno a disposizione una “capsula del tempo” ufficiale: una scatola che verrà riempita con tutto ciò che rappresenta i loro 5 anni all’università.
Quello che vogliono, ognuno mette il suo ricordo.
La scatola sarà poi sigillata, sepolta sotto gli archi del Main Quad e aperta solamente dopo 100 anni.
Una cosa gli piace tantissimo ricordare: pare che qualcuno abbia messo dentro una scatola un pezzo di pizza, perché per la prima volta l’aveva assaggiata a Stanford e la sua bontà gli aveva cambiato la vita.
Pezzettino 2: le cattedre rotanti a scomparsa
Avete mai visto Scooby-Doo? C’è una scena ricorrente, che da piccola esaltava sempre da matti.
Verso fine puntata, quando stanno per risolvere il mistero, il gruppo entra dentro una vecchia villa infestata. Scooby e Shaggy come sempre si perdono e vanno a finire in uno studio in penombra pieno di libri fino al soffitto, con antichi candelabri e un camino in mezzo alla stanza.
Uno dei due, chiacchierando, si avvicina al camino e distrattamente si appoggia a una lampada/sposta un libro/solleva un soprammobile.
Inaspettatamente si sente un “click” e all’improvviso una parte della parete, camino compreso, si stacca e comincia a muoversi ruotando su sé stessa di 180°, facendo scomparire Scooby e Shaggy e facendo apparire un altro pezzo di parete identica, che prima era dalla parte opposta del muro.
A Stanford, nello Hewlett Building, c’è un’ aula universitaria esattamente così.
C’è la scrivania del professore e c’è la lavagna sul muro. dietro la parete c’è un’altra scrivania identica con un’altra lavagna identica. Entrambe le scrivanie stanno su una piattaforma circolare girevole: metà di qua e metà di là.
Quando una lezione finisce si spinge un bottone, la piattaforma gira di 180° e dall’altra parte c’è già il professore successivo pronto a fare lezione, con tutti gli appunti pronti e le formule già scritte alla lavagna.
Così risparmiano tempo tra una lezione e l’altra e non devono aspettare il primo professore che raccolga le sue cose e il secondo che prepari le sue.
Spingi un bottone e il professore 1 scompare e appare il professore 2 già pronto.
Efficiente o inquietante?
(Per me efficiente, ma sento anche un velo di inquietudine)
Pezzettino numero 3: le pulsantiere per rispondere alle domande dei professori
Tipo quiz, avete presente?
Con i pulsanti per votare A, B, C o D.
Ecco, qua loro li hanno all’università.
Ogni studente ha la sua pulsantiera, il professore quando vuole testare le opinioni degli studenti fa comparire una domanda sul mega schermo, a ogni risposta corrisponde un pulsante, i ragazzi votano dando la loro risposta e in tempo reale sullo schermo si vede l’andamento delle risposte di tutti.
Poi di solito il professore lascia 10 minuti ai ragazzi per discuterne tra loro e al termine della discussione fa tirare fuori la pulsantiera per rivotare e vedere come cambiano le opinioni dopo averne parlato con altre persone.
Bellissimo.
Grey’s Anatomy è reale
Nelle ultime due settimane sono successe cose assurde, a me e alle persone vicino a me.
Una di queste, oltre ad essere assurda è stata anche molto pericolosa.
All’inizio del mese sono venuti qua una decina di miei colleghi (non proprio, ma non stiamo a complicare la questione, facciamo che sono miei colleghi).
Sono stati qua fino a domenica scorsa.
Domenica pomeriggio sono andati all’aeroporto di San Francisco e uno di loro ha iniziato ad avere un forte mal di stomaco.
Poi fortissimo.
Poi ambulanza.
Poi risonanza.
Poi operazione d’urgenza.
Aveva una peritonite perforata.
Per fortuna non è salito sull’aereo perché se no rischiava le penne.
In tutto questo è rimasto ricoverato fino a venerdì all’ospedale di Millbrae (una cittadina abbastanza insignificante di fianco all’aeroporto di San Francisco) e io ero l’unica persona che conosceva qua.
Proprio per questo ho fatto su e giù da casa all’ospedale quasi tutti i giorni: mettere piede in un ospedale americano è stata veramente un’esperienza mistica.
Mi è sembrato di essere in una puntata di Grey’s Anatomy.
(E tenete conto che questo era davvero un ospedale mediocre, quindi non oso immaginare quelli super fighi)
Appena entrata una signora anziana che sembra la Signora Fletcher mi sorride e mi chiede di cosa ho bisogno. Mi spiega che lei è in pensione e fa servizio volontario all’ospedale.
È così carina da accompagnarmi fino alla stanza del mio collega.
Tutto è arredato in maniera elegante e luminosa, gli spazi sono grandi, al posto dei muri, vetrate.
La stanza del mio collega è enorme, con divano e wi-fi.
Ogni cinque minuti un infermiere gentilissimo entra per sapere se ha bisogno.
All’ora di pranzo gli portano il menù per scegliere cosa mangiare.
IL MENU.
Infermieri e dottori sono di ogni razza e colore e sono tutti inspiegabilmente belli.
Vi giuro che mi aspettavo da un momento all’altro che arrivasse il Dottor Shepherd.
Poi c’è l’altro lato della medaglia, eh. Il conto.
Stare in ospedale per una settimana dopo un’operazione di quel genere costa al paziente – e quindi all’assicurazione – decine di migliaia di euro.
Il mio collega è stato fortunato, la sua assicurazione si è presa subito in carico la cosa attivando tutto con una semplice telefonata.
Pagano tutto: ospedale, hotel per i giorni dopo la dimissione (un Marriott!), volo di rientro (visto che quello originale l’ha perso), taxi, medicine, tutto quello che potete immaginare.
Io sono stata piacevolmente sorpresa perché ho sempre visto le assicurazioni come un incubo vero. Difficilmente si sa se le assicurazioni sono sicure o meno, visto che in pochi le hanno effettivamente “testate” (e su internet si trova di tutto!), quindi sono contenta di aver visto che questa ha funzionato bene (per ora eh!).
(L’assicurazione è questa, per gli interessati.)
Questa cosa degli ospedali bellissimi e modernissimi mi ha colpito molto, sia nel bene che nel male.
Pensare di essere curati in un luogo così è molto confortante, dall’altra parte c’è sempre una vocina che mi dice “e chi non può permettersi le cure come fa?“.
Presto vi do la risposta, che è un lato di San Francisco che mi fa molto male.
Bellissimo post! Sarebbe un sogno lavorare in quel posto
Eh sì! Bisogna importare queste belle pratiche in Italia!
Eh beh, sempre detto io che non basta fare un viaggio da turisti per comprendere appieno un posto!
Viverci come un “locale” per un po’ di tempo, almeno un mesetto penso, è indispensabile.
Mi fanno ridere coloro che tornano da un viaggio “tuttocompreso”, che ne so, in Thailandia, e credono di conoscerla al 100% pontificando come professori 😉
Per la questione dell’organizzazione del lavoro beh, non c’e che dire, sono avanti.
Hanno capito (non solo loro, penso a Virgin, in UK) che la produttività ed i risultati non dipendo no dalla frusta e dal controllo ossessivo del personale ma dal suo effettivo coinvolgimento (engagement) e soddisfazione.
Troppo per le menti piccole e limitate della cosiddetta “classe dirigente” italiana (ma non solo).
Troppo anche per il tipico lavoratore italiano medio che vedrebbe questa “libertà” come una ghiotta occasione per fregare l’azienda ed i colleghi…
Posso ardire a darti un consiglio spassionato? Stai vivendo un tornado di esperienze nuove, esaltanti e questo si percepisce benissimo da quello che scrivi e come lo scrivi; penso però che i tuoi post sarebbero più leggibili se raccontassi di un episodio per volta invece che 4 in un post solo 😉
Un abbraccione, alla prossima!
—Alex
Io spero col cuore che la futura “classe dirigente” italiana, quella che queste cose le ha viste viaggiando, vivendo all’estero, dai racconti degli amici o anche in giro per il web, possa davvero rivoluzionare il modo di lavorare e coinvolgere i propri dipendenti.
Io, ad esempio, qua dove non mi controlla nessuno (sono da sola per la mia azienda in tutti gli Stati Uniti) lavoro molto più di quanto non facessi in Italia, a una rampa di scale dall’ufficio del mio capo.
Ho pensato all’idea di staccare i post, ma li trovo un po’ sciapi e “SEO oriented” da soli. Così invece sono belli pieni, ma vanno dritti a chi li vuole leggere.
Il prossimo dispaccio però credo che sarà di un episodio solo: è troppo lungo e troppo intenso per essere solo un “capitolo”.
Credo di non aver capito ancora bene bene che lavoro tu faccia ma deve essere per forza super! E tu devi essere un cervellone. A parte gli scherzi, e già; credo che con tutte le cose che non funzionano in Italia il discorso sanità pubblica è qualcosa da salvaguardare con le unghie e con i denti. Il menù però c’è anche nell’ospedale di Siena 😉
La sanità pubblica è ORO. È quello che ci permette di vivere una vita serena, anche se non ce ne rendiamo conto. Non avere la certezza della cura porta alla disperazione, vi parlo presto di quello che si vede qua per le strade.
Che meraviglia Irene 🙂
Un post bellissimo, pieno di emozioni e spunti di riflessione.
Mette voglia di partire all’istante, di tornare all’università e di ampliare il proprio piccolo mondo.
Grazie ❤️
Un abbraccio piovosissimo da qui
Camilla
Grazie, sono proprio contenta!
Vorrei mettere una piccola vocina nel cervello di chi legge, una vocina che dice che le cose si possono cambiare e si possono fare meglio. Ed è bello partire e scoprire nuovi angoli di mondo, ma poi è bello tornare a casa per farla diventare ancora più bella di prima.
Ed è quello che voglio fare io – nel mio super piccolo – se me lo lasceranno fare.
La forza ce l’hai e il nostro entusiasmo pure!
❤️
❤️
Ok, sono svenuta pure io quando ho letto dei benefit di Gusto. Sai se è una peculiarità di quell’azienda?
Questi post in cui racconti le avventure di vita quotidiana a San Francisco sono davvero interessanti!
No, qua ce ne sono molte che lo fanno. C’è da dire però che negli Stati Uniti i giorni di ferie da minimo contrattuale di solito sono NOVE. Capisci che la gente impazzisce a prendersi solo NOVE giorni di ferie all’anno.
Quindi bellissima la cosa delle ferie “a richiesta”, ma sarà tipo il 5% delle aziende? (Sicuramente meno)
Pensa a tutti gli altri che hanno 9 giorni di ferie all’anno che di solito usano per tornare a casa per Natale/Thanksgiving perché vivono lontani dalla propria famiglia. Insomma, mica tanto rosea la situazione, alla fine in Italia stiamo meglio! 🙂
Nove giorni? Santo cielo, non ne avevo idea!
Eh già! Un carcere!
E’ proprio un altro mondo…grazie per questi dispacci, mi fai conoscere una realtà a me sconosciuta!
Che bello! Sono buone idee per migliorare la nostra splendida Italia, no? 🙂
Come farmi sorridere in un lunedì di pioggia! 🙂
Ironico e interessante insieme. Non vediamo l’ora di leggere ancora
Ne sto scrivendo uno un po’ tristone, ma c’è l’ho in gola da un po’ e devo proprio farlo!
‘azz. hai steso anche me con l’organizzazione del lavoro. il colpo numero 7, poi, per un precario italiano è un colpo basso. bassissimo.
Eh sì. Però normalmente i dipendenti qua hanno 9 giorni eh. All’anno. Quindi alla fine Gusto è un’eccezione.
eh niente… adesso mi metto a cercare lavoro da Gusto! Ma che figata è???? Oddio non sto più nella pelle….mi sento persino scema 🙂
Per l’assicurazione è la stessa che faccio sempre io, mai testata personalmente per fortuna ma conosco chi l’ha usata e si è trovato bene (povero il tuo collega…ma che fortuna nella sfortuna!)
Sentire parlare così di Stanford mi fa tornare voglia di mettermi a studiare, sembra una vita completamente diversa dalla nostra.. anzi, non sembra… lo è!
Sì, una figata vera! Raccontiamolo agli imprenditori italiani che magari riusciamo a importare questa buona pratica!
Stanford è un mondo a parte, una meraviglia, ma anche qui c’è l’altro lato della medaglia: studiare a Stanford costa 64mila dollari all’anno.
È vero che l’America è la terra delle opportunità, ma se sei ricco ne hai sicuramente di più, e se sei nella classe media stai molto meglio in Italia!
E’ bello leggere di questa nuova vita americana, sono praticamente le stesse cose che stanno affascinando mio cognato che si è trasferito li da 6 mesi (lavora proprio dietro lo stadio dei Giants nel quartiere Soma). Detto questo però, chi non ha un lavoro o un’assicurazione, fa davvero una brutta vita e il quartiere Tenderloin (che ho visitato solo con una guida) mi ha sconvolto…un vero ghetto, di quelli che proprio non ci devi andare e immagino che forse il lato brutto che hai visto sarà uno di questi. Il bello delle aziende americane è che poi esportano questo modo di lavorare più friendly anche in Europa, ho un caro amico che lavora a Madrid per una ditta americana, e i benefit sono veramente tanti (cibo, vacanze, giochi in ufficio, orari flessibili)…insomma capiterà mai da noi? non credo… Buon proseguimento ! Monica
Sì il Tenderloin (ma poi anche un sacco di altre zone piano piano) ti fa vedere una San Francisco veramente dolorosa.
Io credo che questo modo di lavorare sia importabile se insieme importiamo anche la passione.
Ad esempio: se io dovessi aprire un’impresa, la aprirei così. E come me tante altre persone che conosco (alcune lo stanno già facendo), quindi effettivamente si pò fare 🙂
La descrizione dell’ufficio della tua amica mi ha ricordato “The Circle”, un libro che ho letto un paio di anni fa e che ehm… non finiva bene. Non faccio spoiler, nel caso tu fossi curiosa, ma ti dico che sono rimasta inquietatissima dalle tue parole. o.O
I grandi paradossi d’America mi hanno sempre incuriosito/scandalizzato. Prendi la questione delle cure sanitarie, che tu hai riassunto benissimo: ospedali spaziali, cure stellari, ma solo per chi può permetterselo. Gli altri faticano anche a pagare il conto delle aspirine…
Oi oi! Mi fai preoccupare! 🙂
L’America ha grandissimi paradossi, che secondo me sono la parte più difficile per qualcuno che ci vive.
Un articolo super interessante e pieno di spunti, come solo l’entusiasmo di vivere in un nuovo Paese può regalare.
Questa cosa della open vacation policy è molto da Silicon Valley e pare che sia la tendenza fra le start-up e le big come Automattic (WordPress) & simili. Con orgoglio dico che si sta diffondendo anche qui in Europa, soprattutto nel mondo start-up: io lavoro per una piccola società francese che produce un plugin per WordPress e abbiamo la stessa politica per le vacanze. Non abbiamo uffici, quindi ognuno di noi in giro per l’Europa lavora da casa (o ovunque possa portarsi il suo pc). Sarebbe bello che lo facessero molte più aziende, a volte si confida troppo poco nella responsabilità dei lavoratori! Quanto darei però per avere anche il catering e il viaggio regalo! hahah 😀
Il tema sanità invece, è bello caldo. Aspetto il post sul “male” di San Francisco, alla fine anche questo è vivere un Paese, saperne cogliere le contraddizioni e non farsi accecare solo dal bello.
Mi fa proprio piacere saplo, spero che questo modo di lavorare possa essere sempre più diffuso (e credo che lo sarà). Io sicuramente ne parlerò più possibile 🙂
Il tema sanità è terribile, sto proprio scrivendo un post su quello, ma è peso, non riesco a finirlo!